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Mariangela Villa. C’era una volta un sogno. Introduzione alla simbiosi temporale, di Rita Mele

«Senza che me ne avvedessi, ciò che aveva trovato il suo supremo compimento nella folgorazione iniziale, aveva già cominciato da tempo la sua corsa retrograda, il suo conto alla rovescia, o, se vogliamo usare un termine musicale: il suo canone inverso».

La citazione è tratta dal romanzo di Paolo Maurensig Canone inverso. Semplificando, in musica il canone è una composizione con- trappuntistica in cui progressivamente si sovrappongono una o più varianti di una stessa melodia. Le tipologie di canone sono diverse; una di queste prevede che la melodia sia suonata in sincrono dalla prima nota all’ultima e dall’ultima alla prima. Benché il romanzo sia disseminato di indizi, si intuirà solo alla fine che il personaggio che parla della propria vita, attraversata da un’amicizia tradita, un amore impossibile, l’incombenza del nazismo e della deportazione, segreti e omisioni, è in realtà l’amico di cui narra e che crede di essere, in un totale annullamento delle differenze.
Ho voluto riprendere la trama di questo romanzo, che in realtà è articolato in maniera molto più complessa di come ho riassunto, perché mi sembra ben introdurre il lavoro di Rita Mele C’era una volta un sogno, testo suggestivo e stimolante che indaga la genesi del funzionamento del pensiero psicotico, riconducendolo al diniego di quella relazione primigenia con la madre per la quale l’Autrice conia il ter- mine di legame sincronico.
Tale legame si riferisce alla specifica condizione che lega madre e bambino nel periodo del puerperio, durante il quale perdura nella donna lo stato psichico presente in gravidanza; questa condizione, se da un lato consente di adattarsi con sensibilità e dolcezza alle necessità del bimbo, dall’altro gradualmente sfuma, verso la fine del secondo mese, in quello stato psichico che Bion ha denominato rêverie. Il legame sincronico è dunque precedente alla rêverie e, se nella rêverie il bambino proietta i propri bisogni sulla madre, che li trasforma, nel legame sincronico non vi è alcuno scambio, bensì una madre che individua tali bisogni e vi si adatta, in uno stato di simil sogno atto a stemperare l’impatto della realtà esterna. In questo modo, ella favorisce nel bimbo l’illusione di una continuazione della vita fetale e l’assunzione del vertice sincronico, così definito poiché consente di correlare due diverse logiche nella simultaneità: in altre parole, la madre mantiene col figlio una dimensione sognante che stempera l’impatto della realtà esterna, ma contemporaneamente può svolgere attività concrete e razionali.

Il buon funzionamento del legame sincronico consente l’integrazione, da intendersi però, bionianamente, non come uno stato, bensì come una funzione, dato che, per attuarsi, essa presuppone «un atto psichico creativo che determina simultaneamente qualcosa, qualcos’altro e la relazione tra i due» (p. 48); pensiamo ad esempio alle figure a sfondo reversibile come la “coppa e profili” di Rubin: coppa, profili e relazione tra essi sono necessari per la percezione dell’una e degli altri. La funzione integrativa è inoltre dinamica e alternante: lo stato sognante del dormiente regolato dal funzionamento sincronico si alterna allo stato vigile di chi è sveglio e può utilizzare la logica bivalente e asimmetrica. Secondo la Mele, il soggetto a questo punto può assumere un vertice riflessivo, che è diacronico, capace di distinguere cose ed eventi e di accettare la separatezza.
Al contrario, una madre incapace di consentire l’illusione di continuazione della vita fetale mette bruscamente il bambino di fronte ad una condizione di separatezza che la mente non è ancora in grado di tollerare, costringendolo al diniego del legame; tale diniego ostacola lo sviluppo del normale funzionamento mentale mediato dall’identificazione proiettiva, favorendo invece l’attività dell’identificazione proiettiva patologica: se l’identificazione proiettiva favorisce una re- lazione comunicativa fondata sul reciproco scambio, l’identificazione proiettiva patologica, lungi dall’essere semplicemente un eccesso di proiezioni, è invece il costante e persistente rifiuto di accogliere qualcos’altro rispetto a ciò che è stato proiettato, arrivando così a scardinare l’intero apparato per pensare, che viene letteralmente espulso.
La funzione integrativa è, a questo punto, compromessa, ed il soggetto assume un vertice inverso.

L’Autrice distingue il vertice inverso dal vertice proiettivo. Se nel vertice proiettivo il soggetto espelle contenuti mentali mantenendo l’integrazione, nel vertice inverso egli soggettivizza qualsiasi cosa, riferendo esclusivamente a sé ciò che dovrebbe essere percepito come oggettivamente esistente, proprio come accade al protagonista del romanzo sopracitato, il quale parla della storia di un altro facendola propria. Ne assume la prospettiva.
Accade, insomma, che gli input in arrivo dall’esterno vengano in- vertiti in segnali in partenza dal soggetto stesso, in modo da denegare un esterno angosciante; così, il mondo dello psicotico si popola di tante espressioni di sé, le alternative espressioni tipiche del canone musi- cale: una stessa melodia in tante versioni. L’autrice non ritiene che questo tipo di funzionamento sia però ascrivibile al narcisismo: lo sarebbe solo se assumessimo che Narciso si contempla dallo specchio d’acqua; se fosse di fronte all’acqua riconoscerebbe se stesso nell’immagine riflessa, «invece non la riconosce, perché, avendo invertito il vertice, si vede altro: per questo Narciso si innamora di se stesso» (p.67).
Tale funzionamento è ben esemplificato dall’esperienza descritta da una paziente, alla quale l’Autrice dedica ampia parte del testo: docente universitaria, non riuscendo a tollerare le lezioni frontali che la pongono davanti all’inesorabilità della separatezza dagli studenti, esce dal corpo e si vede alla cattedra dalla loro prospettiva: gli altri sono il suo specchio
È evidente che se l’altro è oscurato, il soggetto non può distinguere l’invio dal rinvio e non può quindi né proiettare né introiettare, perché proiezione e introiezione possono essere garantite solo da un Sé coeso, capace di tollerare la separatezza; o meglio, è possibile quel tipo di identificazione proiettiva patologica che però è arelazionale, che allontana le emozioni, attacca il legame e innesca processi mentali –K.
Per questo tipo di identificazione, secondo l’Autrice, andrebbe allora coniato un nuovo termine.

Concludo con una domanda, ritornando al romanzo e alla musica.
Il canone inverso prevede il ripetersi della stessa melodia in tonalità differenti: uguale, ma diverso, come accade al protagonista del ro- manzo. La tipologia di canone da me descritta, quella che prevede che la melodia sia suonata simultaneamente dalla prima nota all’ultima e dall’ultima alla prima, è invece un tipo di canone chiamato retrogrado o cancrizzante (dal latino cancer, gambero). Poiché mi sembra che questa modalità rispecchi il tipo di funzionamento psicotico descritto da Rita Mele, potremmo parlare in questo caso di identificazione retrograda e mantenere il termine di identificazione proiettiva patologica per il vertice proiettivo?

Mariangela Villa

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