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Roberta Russo. Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi, di Thomas H. Ogden

Thomas H. Ogden, Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi. Raffaello Cortina, Milano, 2016, pp. 196, € 19,00

Thomas Ogden è psicoanalista, scrittore noto ed amato in Italia fin da uno dei suoi primi libri Il limite primigenio dell’esperienza (Astrolabio Ubaldini, 1992), che rivelò nell’autore la capacità di guardare in modo innovativo alla psicoanalisi d’impostazione anglosassone. Da allora i testi di Ogden vengono attesi con interesse da molti, sia analisti che scrittori, poiché la peculiarità di questo autore, che scrive in un modo affettivo e creativo, è di proporre una rielaborazione personale delle molte psicoanalisi che si sono espresse dopo le scoperte freudiane. Rielaborazione che permette al lettore di scoprire livelli altri sia nella comprensione di sé sia nella realtà psichica dell’altro che nella realtà sociale.

«Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi» è un testo molto ricco pur essendo relativamente breve. Il titolo in inglese Reclaiming Unli- ved Life. Experiences in Psychoanalysis suona diversamente da quello italiano per via del verbo «reclaiming» che non c’ è nel titolo italiano ma val la pena di recuperarlo per uno scrittore che fa un uso altamente metaforizzante del linguaggio. To reclaim significa reclamare nel senso «di fare un reclamo» ma ha anche il significato di «bonificare, risanare, riorganizzare» (The Oxford Universal Dictionary, 1978). Per un’unica voce verbale, dunque, significati molto diversi tra loro che non hanno una corrispondenza in Italiano. L’uso del gerundivo «reclaiming» indica un’azione nel suo svolgersi. Tale azione si svolge per tutto il corso del libro stesso. Con la psicoanalisi intesa in modo «vero» nel senso di affettivo, si possono richiamare in vita e far essere i vissuti «unlived», non vissuti del paziente. E non solo, anche i vissuti nella stessa condizione dell’analista in relazione con lui/lei
Il tema fondamentale del libro è rendere consapevole il lettore di come la parte di sé, la vita non vissuta, possa essere alla base di gravi disturbi psichici e come possa essere richiamata in vita e restaurata durante l’esperienza dell’analisi attraverso un tipo di interazione tra paziente e analista essenzialmente basata sulla capacità di «sognare insieme» in un clima affettivo.
Il libro dice dunque della necessità, attraverso «la relazione analitica d’amore» (p. 87), e perciò «trasformativa», di reclamare una vera vita per quegli aspetti interni del paziente che non hanno potuto essere e insieme di restaurarne tale vita (p. 97)
Nel titolo, dopo il punto fermo, troviamo: Esperienze in Psicoanalisi. Viene fatto di collegarle tali esperienze anche ad altre esperienze di vita non vissuta ma di chi? Certo dei pazienti di cui Ogden ci parla diffusamente. O del nostro autore, studioso di Freud, Klein, Bion, Winnicott, Loewald e Searles oppure di loro stessi? Se non di Ogden quale lettore e scrittore appassionato di poesia e letteratura oppure delle vite di Kafka e Borges cui dedica un’ampia parte della sua riflessione?

Nel primo capitolo «Verità e cambiamento psichico» Ogden affronta un aspetto fondamentale della psicoanalisi affermando che ogni conversazione intima è un attingere reciproco, che modifica in un certo qual modo ciò che ognuno è (p.9). E afferma. «...più la conversazione è intima più è vera» (p. 9). La verità è collegata all’intimità, dunque si tratta di «verità affettiva» non di verità in senso ontologico che sarebbe ovviamente un’ingenuità in un contesto psicoanalitico. E usa una efficace metafora per spiegare la sua concezione del sognare come lavoro psicologico inconscio a suo parere operante in ogni individuo sia nel sonno che nella veglia: «Così come nel cielo la luce delle stelle è oscurata dal bagliore del sole durante il giorno, il sogno continua quando siamo svegli, anche se è oscurato dal sole» (p. 95)
La maturazione dell’analista è connessa al processo di potersi sognare più pienamente nell’esistenza, il miglioramento di un paziente è espressione di un analogo processo.
Ogden, analizzando i suoi autori preferiti, tra cui Winnicott e Bion, mostra come differenti modi di fare psicoanalisi possano promuovere una comprensione sempre nuova. Attraverso un suo proprio processo mentale “ad alta voce” trasforma la lettura di un testo in una rilettura- composizione, che diviene una nuova personale scoperta e una scoperta per il lettore che è coinvolto in tale lettura.
Siamo a contatto con una lettura e una scrittura che egli stesso esplicitamente definisce creative perché, rileggendo e riflettendo, si possono scoprire altri significati. Pur scrivendo con grande chiarezza espressiva l’autore riesce a sollecitare il lettore ad entrare in una specie di gioco letterario e insieme psicoanalitico. Infatti, nell’esercitare questo tipo di scrittura-lettura «creativa», è come se pensasse-sognasse, coinvolgendo il lettore nella ricerca.
Ogden non scrive con la ricerca di scientificità di Freud e la sua capacità affabulatoria, non usa il linguaggio criptico di Bion o quello apparentemente familiare di Winnicott, ma cordialmente invita il lettore a ripercorrere con lui le sue proprie esperienze in un modo che questi ne possa fare altre di proprie. Attraverso un sottile gioco letterario fa in modo che il lettore, in uno stato di parziale sospensione della mente conscia, si addentri in quelle esperienze che hanno influenzato nell’autore «non solo il modo di pensare ma anche che cosa significa essere vivi in quanto esseri umani» (p. 53)
Come durante in un buon insegnamento psicoanalitico Ogden fa sì che il lettore scopra parti di se stesso e aspetti degli autori che il lettore credeva d’aver compreso ma non aveva veramente compreso o può comprendere in modo nuovo.
Accade, leggendo, qualcosa che è simile alla esperienza di una buona analisi ma anche di una buona supervisione: la mente del lettore come quella dell’analizzando si apre a dimensioni mai pensate prima, dimensioni che giacevano dentro di lui/lei ma senza che ne fosse consapevole.
La scoperta di questa parte della mente non conscia, ma presente in uno stato sognante, permette al lettore, attraverso l’interazione con la parte logica, la realizzazione del pensiero trasformativo in cui «si creano nuovi modi di codificare l’esperienza grazie ai quali vengo prodotti... nuovi significati... nuovi tipi di sensazioni, forme di relazioni oggettuali e qualità nuove della vitalità fisica ed emotiva (p. 27). Da un certo punto di vista, il «...finire l’analisi, “la fine” di un pezzo di autoanalisi o di lavoro analitico con un collega non è arrivare a risolvere il conflitto inconscio ma al punto in cui il soggetto del lavoro analitico è capace di pensare e sognare la sua esperienza in gran parte da solo» (p. 104).

Nel capitolo VI Ogden usa la sua personale forma di close reading per gli scritti di Kafka (1883-1924), e di Borges (1899-1986), non per farne una psicobiografia ma per rintracciare il significato dell’esperienza della scrittura in Kafka, che usa la letteratura per far essere parti di sé tormentose (p. 155), e in Borges, che la usa per riuscire a vivere un mondo a cui non è preparato (pp. 155-156).
Per ambedue questi grandi «...la scrittura era una via d’accesso all’autoconsapevolezza» (p. 155).
Ogden sceglie due racconti che rappresentano in modo visionario ciò che è accaduto e accade nella società occidentale tra la seconda metà dell’Ottocento e i tempi attuali.

«Un digiunatore» (1924) di Kafka è la rappresentazione di una maniacale quanto autodistruttiva protesta contro la dipendenza dagli ap- petiti, protesta arrogante e insieme disperata, che chiude l’essere umano in una gabbia di assenza di amore e di emozioni. Sappiamo come il ricco mondo occidentale soffra di una disperata mancanza di «appetito» associata ad un’insaziabile pretesa di onnipotenza.
L’oscuro ebreo di Praga, «che aveva paura degli specchi» (p. 115) per orrore di sé, aveva “visto” tutto ciò.

«La biblioteca di Babele» (1941) di Borges è la rappresentazione di un mondo di narrazioni infinite e folli, che nella loro infinità fini- scono con il significare nulla (p.155). Scopriamo così che, ben prima dell’invenzione di Internet, la visionarietà sognante del cieco Borges ha rappresentato ciò che è follia negli Internauti.

In «Una conversazione con Thomas H. Ogden» di Luca Di Donna, l’ultimo capitolo, l’autore spiega: «Ciò che è mutativo ...è l’espe- rienza di una persona nel contesto dell’essere con un’altra persona che ti riconosce come la persona che sei e la persona che sei in procinto di divenire ...pensieri e sentimenti sui quali paziente e analista si confrontano e a partire dai quali l’analista parla al paziente» (p. 171).

Nel leggere le “vignette” che Ogden offre alla nostra riflessione sentiamo che è sempre presente un setting costituito dal pensare, sen-tire, sognare insieme, in un’atmosfera intensamente eppure cauta- mente affettiva (p.26), che rende vero e trasformativo il dialogo paziente-analista. Per Ogden l’holding è questo.

Roberta Russo

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