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Simona Argentieri. Per la rivista psicoterapia psicoanalitica della sipp

Sono davvero lieta di essere invitata a presentare nella sua nuova veste la Rivista Psicoterapia Psicoanalitica. D'altronde, questa non è la mia prima collaborazione con gli amici e colleghi della SIPP, ai quali sono legata da lunga amicizia, nella comune matrice freudiana e nella condivisione originaria di prestigiosi maestri, quali Piero Bellanova e Eugenio Gaddini.
Aggiungo che mi piacciono le Riviste, perché - contrariamente ai libri - sono agili, dinamiche, mutano nel tempo pur restando fedeli a se stesse nella continuità. Ne abbiamo oggi una interessante testimonianza se confrontiamo le vecchie edizioni degli anni '90 - che ho conservato nella mia libreria! - con questo recentissimo volume dedicato alle "Concludenze".
È cambiata la grafica, è cambiato l'editore, sono cambiati i nomi del direttore e dei membri della redazione che io conoscevo; e sono cambiati soprattutto i contenuti e l'orientamento culturale, maggiormente attenti oggi alla cerniera tra psicoanalisi e società. Mi muovo dunque, con la dovuta curiosità, in un contesto al tempo stesso familiare e estraneo, di affinità e differenze, potenziali incontri e disincontri.
Tra gli elementi della continuità, la mia attenzione si è soffermata su un elemento grafico, che ha però un alto valore simbolico: quello del labirinto, che fin dai primi numeri compare in copertina quale elegante logo intrecciato con la sigla della vostra associazione. Tale immagine si può vedere ancora oggi; non solo sulla copertina, ma anche all'interno delle pagine, a segnare le distinzioni delle varie sezioni.

Ho pensato allora di sviluppare in questa occasione una riflessione che mi frulla per la testa da qualche tempo proprio a proposito del labirinto e delle sue evoluzioni nella storia, che a mio avviso sono un luminoso emblema, ben più che metaforico, delcambiamento che hanno subito i nostri modelli teorici psicoanalitici da Freud ai nostri giorni.
Sono consapevole di quanto si sia usato ed abusato del labirinto - per lo più in senso analogico - in ogni campo del pensiero. Storici, storici delle religioni, etnologi, archeologi, narratori, poeti, ingegneri, strateghi, matematici, enigmisti, architetti, giardinieri ... tutti hanno frequentato a modo loro i labirinti. A margine della cospicua biografia specifica, troviamo inoltre miriadi di titoli di ogni genere letterario (saggistico, narrativo, politico, poliziesco...) nei quali compare la parola ‘labirinto’. Anche se si capisce che molte volte invocarne l’immagine mitica e gloriosa serve in modo spiccio a nobilitare l’incertezza, l’oscurità, la complicazione, se non addirittura la confusione, delle situazioni o delle trame.
Anche in psicoanalisi, dunque, c’è il rischio dell’ipersenso, dei troppi percorsi ermeneutici possibili, del ricorso all'allusione o all'allegoria.
Rinuncio dunque a interpretare la dimensione simbolica del labirinto - la più nota ed esplorata, soprattutto dagli psicologi analitici di scuola junghiana - come morte e rinascita, come ricerca della propria identità e del nucleo segreto di sé, come archetipo della sessualità arcaica e minacciosa, al tempo stesso penetrante e catturante; e non mi confronto neppure con le figure del mito -da Arianna a Minotauro- nelle loro intricate
relazioni.
Desidero concentrarmi invece sulle varie forme concrete del labirinto nel tempo e nello spazio, che a mio parere corrispondono mirabilmente alle mutazioni storiche dei modelli psicoanalitici della follìa e della cura.
La prima fase è quella eroica delle origini, nella quale l’indagine psicoanalitica equivale a percorrere un labirinto greco. È l’epoca del Freud entusiasta ed 'illuminista', che scopre il ‘complesso di Edipo’ e che intende la nevrosi come un enigma lineare: il trauma della seduzione subìta nell’infanzia determina la rimozione; e, simmetricamente, è il ritorno del rimosso, l’abreazione con relativa catarsi a produrre la guarigione. Il più efficace esempio è quello della nevrosi traumatica di guerra, nella quale il sintomo basilare è l’amnesia e la cura essenzialmente consiste nel recupero del ricordo. Lo scopo è quello di bonificare il mondo infero delle pulsioni, seguendo la regola (là dove era l’Es, lì sarà l’Io), mentre il ‘filo’ è quello del pensiero preconscio che riconnette idee ed affetti.
Proprio come in un labirinto greco, c’è un corridoio unico e lineare, per quanto tortuoso, che va e che torna. Senza bivi, senza scelte, si compie tutto il tragitto e il ‘mostro’ dell'inconscio è al centro. Non è un caso se in molte variazioni posteriori del mito, ad esempio in quella di F. Dürrenmatt, al centro del labirinto greco c'è uno specchio; poiché la premessa necessaria di ogni processo identitario è il poter vedere se stessi da un punto di vista 'esteriore'.
Il paziente e lo psicoanalista sono
viaggiatori coraggiosi, che esplorano tutto e si ritrovano alla fine al punto di partenza. Il modello del labirinto greco esprime esigenze logiche ed estetiche ed esaudisce il bisogno di ordine e di certezze.
La crisi interviene nell’arco stesso della vita di Freud, quando dall’ipotesi della teoria della seduzione del bambino da parte dell'adulto, passa a quella delle fantasie infantili e l'origine del male o per lo meno il dubbio oscilla tra i genitori e i figli. Non necessariamente il padre ha abusato delle sue creature; talvolta sono i piccoli o le piccole a dare forma fantastica all’oscuro desiderio sessuale. La colpa comunque è ubiquitaria,
così come lo sono l’aggressività e l'angoscia.
Ecco dunque che l’avventura psicoanalitica non somiglia più a un labirinto greco; ma piuttosto ad un labirinto arboreo, più consono allo spirito pessimista e problematico dell’ultimo Freud: quello dello ‘strato roccioso’, della ‘reazione terapeutica negativa’ e dell’analisi ‘terminabile ed interminabile’, che è appunto al cuore delle riflessioni di questo interessante numero sulle "concludenze". Un neologismo che intende sottoli-
neare la complessità della fine della cura, che non si può ridurre soltanto a 'conclusio-
ne' o a 'interruzione'.
Come osserva Giovanni Starace nel suo bell'articolo introduttivo, l'esperienza clinica induce la consapevolezza della "frattura tra la teoria e la pratica"; la "fine analisi classica è presente nelle teorie e nelle idealità degli analisti, ma non nella realtà delle relazioni terapeutiche". Ogni processo terapeutico -scrive- è sempre incompleto.
Tutta la psicoanalisi post-freudiana in effetti esplora le epoche precoci della vita cosiddette pre-edipiche. Le analisi che conduciamo sono costellate di resistenze e sono sempre più lunghe; ma non è affatto garantito che siano più complete, che le profondità raggiunte assicurino la bonifica di tutte le aree inesplorate. A mio avviso - aggiungo - sono spesso inutilmente lunghe; poiché il criterio della fine della terapia non può essere quello del risanamento assoluto e definitivo, ma piuttosto quello dell'esaurimento delle potenzialità trasformative della coppia.
Come ha scritto il matematico Pierre Rosenstiehl, il labirinto arboreo è fatto di ramificazioni e radici, con molti insidiosi vicoli ciechi. Difatti, è costruito precipuamente con la gomma, per cancellazione di nessi; si imboccano falsi itinerari, ambagi, meandri; è l’arte di svolgere e riavvolgere continuamente il filo e si analizza non tanto per svelare, quanto per creare e ricreare significati. Il filo stesso non è solo garanzia di. ritorno, ma strumento per avanzare e procedendo si lasciano nuovi segni (‘trascrizioni’, ‘costruzioni’, ‘risignificazioni après-coup’...).
Come in un labirinto arboreo barocco, la cura analitica è segnata dall’errare, nella sua doppia accezione: quella del vagabondare e quella dell’errore, sempre possibile, come prezzo necessario della libertà di scegliere.

In questa chiave, il centro è lo spazio lasciato in bianco, con intuizione geniale, da Leonardo da Vinci nei suoi labirinti cartacei.
La psicoanalisi del tempo a venire, infine, sembra corrispondere appieno (purtroppo, forse) alla terza forma del labirinto: quella più moderna, detta a rizoma o a rete, nella quale ogni via si può congiungere con qualsiasi altra, secondo cicli che crescono senza limiti, dove non c’è un centro, o meglio, il centro può essere ovunque, perché è mobile e mai definitivamente strutturato.
Il modello è quello dei formicai, delle società umane spontanee, ma anche quello delle circonvoluzioni cerebrali e dei nessi neuronali del sistema nervoso centrale.
È questa infatti l’epoca in cui gli psicoanalisti sono propensi a credere che molte scelte interpretative possano essere tra loro equivalenti, che le narrazioni possibili siano infinite, così come le relazioni terapeutiche. L’esercizio ermeneutico rischia di divenire inesauribile, fino all’arbitrio; e ogni soggetto è inteso a sua volta come ‘polilogico’, polilingue, plastico, protagonista di una ricchezza, ma anche di una perenne provvisorietà del senso, a spese di una sotterranea labilità strutturale.
Anche la torre di Babele, in fondo, è stata intesa come un labirinto verticale.
Gli esperti dicono che nei labirinti il ciclo amalgama la circolazione e lo scambio, mentre le parti arborescenti creano la segregazione. Sembra allora che la comunicazione divenga più importante del senso, costretto in un gioco autoreferente di collasso e
di andirivieni frenetico.
Non credo sia un caso se nella clinica di oggi accade sempre meno che si faccia riferimento al conflitto e alla colpa e si dia invece largo spazio alle angosce narcisistiche, alle difese finalizzate alla protezione della fragilità del Sé -come osserva ancora G. Starace- messe in opera da pazienti con un Io debole, segnato da microscissioni, ambiguità, aree di non integrazione.

In epoca di labirinti a cicli, senza limite, sempre più suggestiva si fa l’identificazione tra lo psicoanalista e l’architetto Dedalo, perché è colui che ha costruito il labirinto e poi ne ha perso la mappa. Artefice di ogni sentiero, ne può restare catturato egli stesso. Guida per gli altri, lui stesso si può perdere.
Come dice Borges, esistono anche labirinti economicissimi, fatti di una sola linea retta, dove si sono persi in tanti...

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
- Hermann Kern. Labirinti . Forme e interpretazioni. 5.000 anni di presenza di un archetipo. Feltrinelli, Milano, 1981
- Paolo Santarcangeli. Il libro dei labirinti. Storia di un mito e di un simbolo. Vallecchi, Firenze, 1967
- Pierre Rosenstiehl. Voce dell’Enciclopedia Einaudi “Labirinto”. Einaudi, Torino, 1979.
- Friedrich Dürrenmatt. Il Minotauro. Marcos y Marcos, Milano, 1987.
- Umberto Eco. Postille a “Il nome della rosa”. Alfabeta, n. 49, giugno 1983
- Jorge Luis Borges. El Aleph, 1952. Feltrinelli, Milano, 1959
- G. Deleuze e F. Guattari. Rhizome. Minuit, Paris, 1976.

(Simona Argentieri, membro ordinario e didatta dell'Associazione Italiana di Psicoanalisi - marzo 2017) (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

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