A. Gagliardi. Pensare le esperienze di supervisione

Relazione presentata ad un incontro scientifico

della Sezione Sipp Triveneto

27 novembre 2015

 

 

Pensare le esperienze di supervisione

di Adriana Gagliardi

 

 

Questi pensieri sulle esperienze di supervisione riguardano soprattutto l’assetto interno del supervisore, il mio assetto interno quando svolgo questa funzione: esse tentano di mettere a fuoco, quindi soprattutto, la componente controtransferale che si struttura nel “campo” della supervisione e le sue differenze e le sue analogie con il controtransfert che nasce dal processo psicoanalitico che si compone insieme al paziente. Non parlerò dello sviluppo teorico del concetto di supervisione, che comprende una vasta bibliografia che, nell’accezione attuale, può essere presa in considerazione a partire dal dibattitto che fu inaugurato alla fine degli anni ’70 ( vedi la rassegna di Tagliacozzo 1989 sul Trattato di psicoanalisi vol 2).Cercherò, invece, di parlare di come queste letture si “incarnano” nella mia esperienza personale di supervisore.
Una prima considerazione che mi viene in mente, se penso alle mie supervisioni (effettuate da me) , riguarda il mio funzionamento intrapsichico e interpsichico, mentre cerco di “aiutare” coloro che mi chiedono questa funzione.
Penso, infatti, che la ricerca del proprio assetto interno nell’atto di supervisionare passi attraverso il dare significato alle proprie esperienze formative e professionali, all’appartenenza ad una comunità scientifica che connota affettivamente l’intrapsichico, tutti elementi di una gruppalità interna che concorre a rendere generativa la funzione della supervisione.
Più in particolare, penso a come le mie teorie implicite possano essere state trasmesse attraverso la conduzione della supervisione, declinate nella tecnica psicoanalitica. Contemporaneamente, come ho adoperato la mia tecnica analitica per comprendere l’articolazione interna del materiale clinico che mi è stato sottoposto e i suoi conseguenti effetti sul supervisionato. Se questi è un allievo che ancora frequenta la sua scuola di specializzazione e ancora in analisi personale, pongo particolare attenzione a non interferire con il suo “processo parallelo”, tra l’essere paziente e l’essere terapeuta in un processo di supervisione. Anche in me si attiva un “processo parallelo” che tento di utilizzare mentre sono a contatto con quella determinata situazione, mi riferisco alla mia funzione come terapeuta, parallela a quella di supervisore. Spesso nei casi di giovani supervisionati, non è a loro chiara la reazione controtransferale, rispetto al transfert del loro paziente, e ritengo che non si possa interpretare alcune di queste reazioni senza interferire nel loro “ processo parallelo”. In questi casi, penso che il punto di vista di Grinberg (1969-1989) sulla supervisione sia ancora attuale: il supervisore, infatti, dovrebbe osservare- comprendere, senza interpretarlo, il controtransfert dell’Allievo, rispetto al suo paziente, ma soprattutto lavorare con il proprio controtransfert, per dare un senso creativo e trasformativo al materiale che gli viene presentato. Queste situazioni (nelle quali il controtransfert del supervisionato non è a lui stesso chiaro), a mio avviso, non derivano solo dalla scarsa esperienza dei supervisionati nel campo clinico, ma dalla nuova situazione che essi si trovano ad affrontare: osservare la situazione clinica dal punto di vista psicoanalitico, essere a contatto con il proprio inconscio, con l’intrapsichico.
Nelle situazioni nelle quali un collega più esperto chiede una supervisione, d’altra parte, spesso egli vuol fare chiarezza proprio sul suo controtransfert: in questi casi, quando l’analisi personale è conclusa da anni, si cerca insieme di mettere a fuoco le sue reazioni controtransferali. In tutti i casi, posso affermare di avere appreso qualcosa dai miei supervisionati, ho appreso dalla loro esperienza, come spero loro abbiano appreso dalla mia.
Nel materiale di supervisione che ho scelto e che cercherò di descrivere, la mia attenzione è focalizzata sulle mie difficoltà dovute a particolare situazioni nella quali mi sono trovata ad utilizzare il mio controtransfert, per tentare di capire quali difficoltà avesse incontrato il supervisionato con quel particolare paziente, la qualità della relazione transfert-controtransfert che il terapeuta e il paziente hanno in atto nel loro processo analitico. Mi soffermerò sulle mie difficoltà nel comprendere il suo “processo parallelo” e il mio “processo parallelo” (tra l’essere supervisore e l’essere analista-persona).
Sappiamo dell’importanza delle libere associazioni del paziente nel processo psicoanalitico, cui corrispondono, simmetricamente, quelle dell’analista, attraverso l’attenzione fluttuante e lo stato di rêverie dell’Analista. Sono tutti dispositivi -“sonde” verso l’inconoscibilità dell’Inconscio che concorrono alla trasformazione delle soggettività implicate nel processo.
Negli anni mi sono resa conto che nella relazione di Supervisione questi due metodi per accedere all’Inconscio (in particolare le libere associazioni e la rêverie) sono utilizzati da me, in supervisione, in un modo particolare. Penso sia in atto, in me, una forma di scissione che si articola in due aspetti: quello di comprendere usando il mio controtransfert e, contemporaneamente, quello di essere consapevole che la mia funzione è quella di trasmettere la mia esperienza “insegnare” “pensare insieme ”all’allievo, o più in generale al supervisionato. Quest’ultima funzione si traduce nel rilevare eventuali errori che determinano un’impasse terapeutica, o fare chiarezza su eventuali manipolazioni del suo paziente o tutte le altre situazioni nelle quali il terapeuta si sente “immobilizzato” dal paziente.
Un'altra pecularietà di questo setting, infatti, nasce dalla constatazione del fatto che nel processo della supervisione non può esserci la sospensione del giudizio, che è necessaria nel processo della cura. Questo aspetto modulerà la trasmissione interpsichica degli affetti e dei pensieri, ma anche la qualità dell’ascolto, delle libere associazioni, del transfert, ecc.
Il mio Io conscio- preconscio, quando è ingaggiato nel lavoro di supervisione, è orientato dal desiderio di “capire”, operando su un materiale clinico in cui la sospensione del giudizio è di una qualità particolare. Da una parte, infatti, mi sento di trasmettere-insegnare una sospensione del giudizio al supervisionato rispetto al suo paziente, dall’altra a esprimere un punto di vista, inevitabilmente giudicante, sul lavoro che l’allievo o il supervisionato portano. Mi sembra di avere tentato sempre di non interferire con un modello teorico differente, quello che è stato scelto dal terapeuta, da quello che consciamente o inconsciamente avrei adottato io, in quella situazione, con i miei pazienti. Inoltre c’è sempre in me anche la valutazione della congruenza tra i modelli teorici del supervisionato e il suo operare clinico. Spesso ho sentito un’oscillazione nel mio Preconscio tra aspetti “materni” e “paterni”, ove paterno non significa, per me, soltanto una funzione simbolico-separante (come nel processo terapeutico). E’ una funzione di definizione-giudizio degli elementi del processo terapeutico che mi sembra in atto, in quella particolare supervisione, e il desiderio di chiarirli e trasmetterli. Questo aspetto è anche legato al fatto che io faccio parte di una Società di psicoterapia psicoanalitica: questa appartenenza costituisce un aspetto importante nel mio assetto interno, perché c’è in me la responsabilità e il desiderio di trasmetterne il “modello” teorico-tecnico.
Un altro aspetto importante, per me, è quello di trasmettere il desiderio di capire, d’intravedere, attraverso il metodo psicoanalitico, i derivati dell’inconscio: ampliare la capacità di ognuno di fare vagare la mente, di usare la propria mente liberamente, di ampliare l’attività del preconscio, la propria capacità di rêverie. Da questo punto di vista, l’obbiettivo è quello di cercare di promuovere la creatività, fornire un intreccio che permetta al supervisionato di andare avanti con la sua funzione terapeutica. L’ampliamento del Preconscio e della sua funzione concorre a creare un terreno fertile quella “culla di spago” ( Corrao, 1998), quel “cesto di vimini tessuto insieme” ( Ferro, 1996).
In altri termini, penso che la funzione alla quale è chiamato un supervisore, sufficientemente buono, sia ardua e complessa, perché egli dovrebbe funzionare in maniera scissa, (consapevolmente). Credo che questa “scissione”, se riesce a essere creativa, rimetta in movimento il processo terapeutico.
Il desiderio di “capire” di “trasmettere” contenuti utili a quel processo terapeutico, in particolare, introduce un’altra percezione di differenza tra supervisione e psicoterapia psicoanalitica. Spesso, con gli allievi sappiamo di avere un tempo definito per portare a termine la supervisione (la nostra scuola, per esempio, prevede un monte ore di 140, per accedere al diploma e un minimo di 40 ore da svolgere con ogni supervisore). Il setting di supervisione si articola, di solito, al ritmo di una seduta per settimana.
In queste situazioni, si rischia di accentuare quello che ho definito aspetto “paterno” del Preconscio: si rischia di avere in prima istanza un desiderio di trasmettere contenuti, il clima può diventare “ saturo”, con “troppa memoria e troppo desiderio”. In me può prevalere, in alcuni casi, il pensiero di tenere sotto controllo il filo rosso che collega le sedute, con la percezione di essere immobilizzata nelle libere associazioni, di mettere in secondo piano ciò che avviene nell’hic et nunc della seduta. Questa percezione del tempo limitato può portare anche a delle interpret-azioni, a non stabilire un contatto con il supervisionato che possa essere fecondo per una trasformazione e una crescita della sua funzione terapeutica.
Nel materiale clinico che ho scelto, un altro aspetto è evidente: come la scrittura del protocollo di supervisione possa essere vissuta (sia da me che dal supervisionato)come una traccia troppo concreta che limita la possibilità di fare vagare la mente. Credo che gli appunti che prendiamo su di un caso siano una “narrazione” importante e possano costituire uno “ spazio terzo” tra il nostro mondo interno e quello del paziente. Spesso essi, mentre li scrivevo per i miei pazienti, mi hanno portato a un insight, a una ritrascrizione-trasformazione del processo terapeutico, oltre ad essere una traccia di memoria viva che rinvia a sensazioni percettive, al ricordo del lessico familiare tra me e il paziente. Rileggendo, invece, i “protocolli” delle supervisioni avverto una certa rigidità nella narrazione, presumibilmente dovuta al timore del giudizio. Spesso, infatti, annoto quello che è avvenuto tra me e il supervisionato, ciò che c’è stato di affettivo, di vivo, al di là della traccia lasciata dalla parola scritta, che spesso è uno scambio meccanico: il pz. dice, il ter. dice. Sono degli appunti che costituiscono una narrazione sulla narrazione del supervisionato. A volte fermo la lettura degli scritti, mentre li leggono, e chiedo: ma lei cosa ha sentito, cosa ha pensato? Accade che la scena si animi e la parola detta risuoni di sensazioni affettive di pensiero in libertà. Accade che, dopo queste mie comunicazioni, anche la scrittura si animi, oltre al processo terapeutico e al mio contatto con quella persona: ogni supervisione è unica, come ogni paziente e ogni terapeuta e ogni relazione tra loro. Penso sempre che se una persona ha talento clinico, se possiede delle capacità personali di ascolto e tecniche, nessuna “committenza”, lo possa bloccare.
Io ho avuto la fortuna di avere avuto dei supervisori che mi hanno insegnato a dare valore agli affetti, alle mie sensazioni e alle mie percezioni, oltre che al mio pensiero: gliene sarò sempre grata.

 

Materiale clinico (Omissis)

 

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