Federica Ermini. Curare la Psiche come fattore di cambiamento di Giorgio Foresti

Ma Psiche, mentre impaurita e tremante ancora piangeva a dirotto sulla cima della rupe, sentì un dolce soffio di Zefiro alzarsi lievemente e agitarle da ogni parte il lembo della veste che, gonfiato come una vela, la sollevò con il suo alito leggero facendola scivolare a poco a poco lungo il pendio dell’erta rupe, e la depose con dolcezza nel grembo di un prato fiorito nella valle sottostante.

Apuleio, Eros e Psiche (Le Metamorfosi)

 

“Psiche” è un termine che non rimanda soltanto all’anima, ovvero in gergo psicologico alle funzioni ed ai processi che ci permettono di fare esperienza di noi stessi e del mondo, guidando il nostro agire. Nella mitologia greca la storia di Psiche rappresentava l’amore umano: quell’investimento oggettuale che porta una ragazza di una bellezza tanto straordinaria a non riuscire a trovare marito, prima a svelare il volto dello sposo divino contro il suo volere, quindi al superamento del limite, e successivamente ad affrontare numerose mitologiche prove per recuperare l’amore perduto.
In questo secondo libro, che segue “Dipendenze e capacità di amare oggi” del 2015, Foresti estende alle patologie difficili la sua analisi della psiche, alla luce di quella che la mitologia greca aveva già intuito essere la sua più naturale e complicata estensione: la relazione. La esplora da un punto di vista sia sociale che psicopatologico e lo fa attraverso le relazioni non solo con i pazienti dei numerosi casi clinici presentati, ma anche con i colleghi, della cui collaborazione si avvale nella stesura del libro. Anche il lettore ha la possibilità di sentirsi parte di questo incontro fruttuoso, grazie alla disponibilità dell’autore a mettersi in gioco, superando le difese narcisistiche, ed a comunicare in modo accessibile e coinvolgente.
La relazione emerge da subito come un fattore terapeutico aspecifico che necessita da parte del terapeuta della capacità di accedere alle proprie aree disturbate. Questo non solo permette al paziente il rispecchiamento e l’identificazione nella relazione con il terapeuta, merce rara nella nostra società narcisistica, bensì concede anche al terapeuta la possibilità di curare sé stesso. 
È sempre la relazione intensa con i maestri Zapparoli e Funari e con la Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica, a guidare il lavoro psicoterapeutico, psichiatrico e di gruppo con i pazienti difficili, presentato in questo libro. Foresti condivide con loro la necessità di una modifica sostanziale del setting nel lavoro con i pazienti psicotici e borderline, ma anche con nuove sindromi come l’Hikikomori: la psicoanalisi tradizionale mostra il suo limite nel gestire il transfert simbiotico fusionale (mancanza di confini sé-altro) o ambivalente (non posso stare né con te né senza di te) che questi pazienti tendono a mettere in atto.

“L’analista deve adottare un atteggiamento nel quale più che il significato delle parole, sono importanti l’atmosfera, la musicalità, e il ritmo vocale, così come avviene nella funzione di rêverie della madre con l’infante (Funari, 2006).
La scelta nelle patologie difficili di un setting ad impronta relazionale è stata tra l’altro una delle specificità che hanno caratterizzato la nascita della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (…).
Il nuovo setting deve essere duttile, adattato alle caratteristiche e ai bisogni specifici e mutevoli nel tempo del paziente; un setting che si occupi non solo della realtà interna, ma anche di quella esterna e delle difficoltà che il paziente incontra.
Un setting dove venga valorizzata la creatività ludica condivisa della coppia terapeutica, un setting come coppia dialogante.
Lavorando in questo modo e, quando necessario, avvalendosi di altri tipi di intervento, come la farmacoterapia e l’intervento assistenziale, si è visto che si possono curare con successo casi gravi che con il modello classico non erano trattabili”.

La relazione diventa non più soltanto lo strumento, ma anche l’obiettivo dell’intervento terapeutico, che permette di passare da un investimento libidico di tipo narcisistico ad un effettivo incremento dell’investimento oggettuale.
Il gruppo si dimostra uno strumento terapeutico importante non solo per le situazioni in cui la relazione a due rappresenta una vicinanza eccessiva per poter essere tollerata, ma anche perché rappresenta un ambiente particolarmente favorevole alla “mobilitazione di emotività primarie”, come l’autore ci mostra attraverso il caso clinico di un giovane uomo “che dice di non provare emozioni, che qualsiasi cosa gli è indifferente”.
Anche la somministrazione del farmaco viene gestita dall’autore all’interno della relazione, non soltanto con un obiettivo di remissione del sintomo tout court, ma come strumento evolutivo a livello personale e relazionale.
La self-disclosure viene spesso utilizzata dall’autore come un'altra strategia terapeutica per accedere alle limitate risorse relazionali di questi pazienti, sempre nel rispetto della loro capacità e disponibilità a partecipare alla relazione.
Foresti ci mostra come i centri diurni o comunque i centri residenziali rappresentino per il paziente psicotico una sorta di “ambiente transizionale”, dove anche il delirio può essere accolto e gestito senza timore e senza pressioni per la sua remissione. Questo permette progressivamente l’apertura alla relazione con gli operatori della struttura secondo le loro personali differenze ed affinità.
Un concetto che emerge in queste strategie terapeutiche ispirate al professor Zapparoli, a fianco a quello centrale della relazione, sembra essere quello del limite. Il terapeuta deve limitare la propria fantasia di potere assoluto e onnipotente accettando di imparare dal paziente e condividendo il lavoro in gruppo, con la famiglia del paziente, nel rispetto della sua limitata capacità di separarsi, e talvolta anche con altri psichiatri o terapeuti, consultati da pazienti e famiglie in parallelo e di propria iniziativa. Anche il gruppo terapeutico e riabilitativo si riconosce disposto ad accogliere il delirio senza chiedere una remissione precoce del sintomo per lui destabilizzante, e limita l’obiettivo terapeutico al raggiungimento di una simbiosi parziale.
Il paziente si trova accolto e protetto nei confini di un’istituzione che lo può accogliere senza le pressioni esercitate dal mondo esterno: all’interno di questi confini può permettersi di concedersi anche alla relazione (talvolta persino all’amore!) e limitare la propria follia, che da una manifestazione pubblica diventa gradualmente sempre più privata e rispettosa dell’altro.
In una società logorata dall’eccesso, dal consumismo e ripiegata in un’ingordigia narcisistica, a fronte di un significativo aumento della sofferenza psichica nella popolazione, Foresti ci propone il limite come strumento per riuscire ad accedere in modo soddisfacente al cambiamento, rappresentato dalla relazione.
Come nel mito di Psiche, la cura di una condizione narcisistica fonte di solitudine consiste nell’accedere al riconoscimento dell’altro, attraversando con coraggio e con il giusto sostegno pericoli e difficoltà, per recuperare così il rapporto perduto.

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